di Andrea Grillo e Mauro Festi
pubblicato il 19 Marzo 2020
Proponiamo una piccola sintesi sulle caratteristiche di questo “tempo di quarantena”, come sfida alla identità civile ed ecclesiale, configurando una possibile risposta della liturgia cristiana, anche con un esempio di celebrazione della Cena del Signore del giovedì santo. Abbiamo pensato che potesse essere utile non solo una riflessione complessiva sul “fenomeno nuovo”, riletto sul piano della esperienza liturgica, ma anche offrire un modello di celebrazione, il più dettagliato possibile. Perché la pastorale non si impicchi – teoricamente e praticamente – davanti (e dietro) agli schermi dei media (A. Grillo – M. Festi)
“Celebra il Signore, Gerusalemme
loda, Sion, il tuo Dio” (Sal 147)
Riflessione liturgica sulla quarantena e un modello di celebrazione
di Andrea Grillo e Mauro Festi
1. La condizione attuale
Partiamo dal bisogno fondamentale, dal grido che oggi leviamo a Dio: abbiamo bisogno di essere sottratti dal dominio della morte. Come credenti, abbiamo bisogno di sapere che il Dio di Gesù Cristo, mediante il suo Spirito, sta agendo così in nostro favore. E ne abbiamo bisogno come collettività, come noi. Questo è il primo punto su cui bisogna fare chiarezza: non si tratta di “desideri individuali”, ma di un corpo ecclesiale che deve trovare parola.
Partiamo dal momento favorevole che è il nostro oggi. Mai come ora, forse, si sta concretizzando una sorta di tavolo su cui giocare a carte scoperte: oggi stanno emergendo gli immaginari che sorreggono le nostre vite. Ma, per usare un’immagine, è una sorta di tavolo caldo forato. Tutti gli immaginari sono sottoposti a inevitabile mutamento, sotto l’azione del calore. Nulla tiene, nella realtà; quel che tiene, negli approcci rigidi alla realtà, tiene nelle nostre idee, non nella realtà. Ciò che non tiene, si disperde, e cade giù, dai fori. Tentare di andare disperatamente a recuperarlo, conduce anche noi alla disperazione. Ciò che tiene, il caldo bruciante della tavola lo espone comunque a rimodellamento. Se lo rimodelliamo in modo sensato, finché il tavolo è caldo, tiene, e costituisce l’emergenza di una offerta di senso. Se lo rimodelliamo in modo insensato, fa la fine di ciò che non tiene, ma l’avremo disperso noi. Avrebbe potuto tenere. Vi è, in questa differenza tra ciò che obiettivamente non è disponibile (l’evento epidemia, la esigenza di isolamento, la impossibilità di contatto) e ciò che è disponibile (il nostro modo di rispondere, individuale e comunitario), lo spazio stretto, ma reale per prendere l’iniziativa in modo articolato.
Oggi è momento favorevole, per noi:
Perché siamo tutti esposti alla morte, e ad una morte in cui l’unica certezza è che c’è una evidente sproporzione tra la sua capacità di averla vinta e la nostra di difenderci.
Perché, come ha detto bene Chiara Giaccardi, ora è evidente che ogni individualismo è astrazione: ora il paradigma “mors tua, vita mea” cade dai fori del tavolo, tiene il “vita tua, vita mea”. È una inaudita situazione di solidarietà che non dobbiamo creare noi, come era la situazione precedente, e non ci siamo riusciti. Ora c’è, è già disponibile. E possiamo valorizzarla.
Perché siamo tutti in quella situazione “ideale” di secondo annuncio, come ne parlano E. Biemmi e i suoi colleghi: un eccesso di esposizione alla morte, ma che è anche, agli occhi di molti, spesso non credenti o comunque laici, l’apertura di un potenziale di vita inimmaginato prima.
Perché sta emergendo l’inconsistenza dei modelli clericali, che si sarebbe mostrata forse tra qualche decennio, ma probabilmente senza la capacità di rielaborare contemporaneamente gli immaginari. Ora la fragilità del modello clericale sta davanti a noi, nella sua impotenza e nella sua residua ostinata arroganza.
Perché siamo in quaresima, tempo di sospensione di riconfigurazione di identità e legami, per favorire l’esperienza radicale di vita che squarcia la morte dal suo interno.
Perché ci si è improvvisamente affinato il fiuto nel saper riconoscere parole vuote e parole di profezia, di cui abbiamo terribilmente sete. Siamo più sensibili che mai alle parole che non hanno nulla da dire, e assetati di parole vere.
Perché è evidente che la Chiesa sta scegliendo di dar credito all’umano con il suo sapere e le sue pratiche, sta confessando pubblicamente – anche se in parte inadeguatamente e con un certo imbarazzo se non una certa reticenza – che Dio non si dà a prescindere dall’uomo, ma con l’uomo e per l’uomo. E lei non ne è la sola competente. È il miglior presupposto alla seconda svolta antropologica. Forse davvero stiamo uscendo dall’antimodernismo e ci stiamo riconciliando – anche ex necessitate – con la forza evangelica di aspetti convincenti del “progresso”.
Perché possiamo puntare sul sacerdozio battesimale e la reale partecipazione all’atto da parte di tutto il corpo ecclesiale.
2. Le difficoltà nel progettare
Ma, ciononostante, sentiamo la difficoltà nell’immaginare come configurare un atto liturgico possibile:
Fino a ieri eravamo in contesto pienamente individualistico, e a livello ecclesiale clericale e sacramentalistico: non abbiamo una esperienza forte di gesti in linea con il nuovo immaginario che si sta creando, anche se avvertiamo, forse, il cambiamento in atto.
Abbiamo un diffuso sospetto sul rito, e confondiamo il simbolico con il segnico, peggio ancora con il didascalico. Liturgisti e biblisti, liturgisti ed ecclesiologi, liturgisti e pastoralisti, liturgisti e liturghi non godono di un comune terreno di condivisione della consapevolezza della fondamentalità della mediazione simbolico-rituale. Tra gli stessi liturgisti cozzano modelli clericali tridentini e pre-moderni con formale assunzione di prospettiva conciliare, che manifesta ora l’incapacità di agire sul livello profondo di ciò che si pensa e si sente.
Abbiamo, al fondo, forti immaginari dualistici che sono duri a morire, per cui forse riusciamo a riflettere su ciò che accade e a cercare parole di senso, ma vediamo come “cambiare le abitudini” sia molto più difficile. Il livello del gesto è più difficile da raggiungere rispetto al suo significato, che ci pare di dominare.
Non abbiamo formato una solida soggettualità e ministerialità laicale e tutto, all’improvviso, sembra tornare sulle spalle “eroiche” del presbitero.
Siamo pervasi e invasi dai media, anche e soprattutto a livello ecclesiale, che rischiano di saturare lo spazio di sospensione che invece sarebbe fondamentale lasciare vuoto perché sia possibile una riconfigurazione. Se il media si insinua subito, per rispondere ad un bisogno “comunicativo”, introduce una ulteriore distorsione.
I contesti celebrativi sono vari tanto quanto le realtà delle nostre case in questo momento: famiglie, persone sole, anziani, bambini, gente che non esce più, gente che deve uscire ancora ma non vorrebbe, gente che deve uscire per salvare gli altri e non può rientrare, gente che passa il 90% del tempo attivo in ospedale… quindi le emozioni che ci abitano sono varie nelle loro gradazioni, e lo sono anche le energie a disposizione, i luoghi, l’attenzione… E’ estremamente complesso riuscire a cogliere che cosa di questa “ordinarietà straordinaria” che stiamo vivendo è ospitale al venirci incontro di Dio in un modo che ci consente di percepirlo come tale, e di rielaborarlo compiendo gesti simbolici. I codici simbolici comuni non sono praticabili, e quelli che potremmo praticare non sono stati elaborati.
Non abbiamo mai sperimentato fino in fondo l’adattamento liturgico, se non in forme di creatività “selvagge” e fuori dalla logica rituale, o nella forma della sua rigida negazione. L’abbiamo fatto linguisticamente, ma riducendo le forme a contenuti. Così oggi siamo in grande imbarazzo. E il rischio è che, al posto di nuove forme, non abbiamo solo le vecchie forme, spalmate su tutti i supporti (TV, PC, smartphone, tablet, maxischermi…)
3. Come potremmo muoverci: tre evidenze
Il margine di manovra, obiettivamente stretto, non è inesistente. Proviamo a identificare i punti-chiave di questo spazio, che riguardano la “percezione della alterità di Dio nelle trame della esistenza più elementare”, la “appartenenza dei soggetti e dei gesti alla tradizione ecclesiale” e la “forma simbolica comune, che si fa atto rituale condiviso”.
a) Cercando di agganciare l’umano più umano e più consistente che ci accomuna. Perché lì e solo lì possiamo percepire il sacro:
Le sfumature delle emozioni legate alla paura, all’angoscia, al terrore, alla disperazione, ma anche allo stupore, al coraggio, alla speranza, alla dedizione.
Il bisogno fondamentale di percezione di presenza, di cui il senso fondamentale è il tatto, ma forse anche l’olfatto, perché urge essere strappati dall’isolamento e dalla solitudine.
La più forte disponibilità a superare ogni divisione e a valorizzare il valorizzabile, in forza della percezione che non c’è tempo. Siamo, cioè, attenti a litigare, perché domani tu potresti non esserci, o potrei non esserci io, e non so se avremo mai modo di ritrovarci, quindi non è importante il motivo di tensione, è importante che tu ci sia. E se altre volte mi stufavo a rispondere ai dieci messaggi di mia madre da cui mi sentivo invaso, ora mi guardo bene dal non rispondere, o addirittura prendo l’iniziativa, perché non so quanto mi sarà dato di averla ancora con me… C’è, cioè, una maggiore disponibilità relazionale legata alla percezione della possibile prossimità della fine, che conduce all’essenziale.
È primavera. In tempo di coronavirus. La natura è il luogo forse più forte del mantenimento sostanziale delle polarità opposte di vita e morte. La vediamo meravigliosamente fiorire e sorridere, la avvertiamo drammaticamente portatrice di morte. E l’una e l’altra cosa ci mantengono in posizione fortemente passiva/recettiva. Qualcosa dipende da noi, ma molto no. E non ne possiamo disporre: accelerare la fioritura e impedire il diffondersi del virus sono entrambe cose non alla portata di ciascuno di noi. Per quanto restino nostri i gesti fondamentali del coltivare e custodire, che sono i verbi dell’alleanza.
b) Individuando che cosa consenta di far sì che ciò che elaboriamo sia un atto di tradizione ecclesiale:
Deve mantenere l’aspetto recettivo, in un contesto in cui non sarà l’autorità ecclesiale e magisteriale a fare la “consegna”. I gesti e le parole devono, quindi, avere molto il gusto dei familiari gesti e delle familiari parole di Chiesa, perché non siano troppo “nostri” da non consentirci di accorgerci che un Altro ci si sta facendo prossimo. Deve essere manifestazione della Chiesa, che in un certo senso già conosciamo, ma anche realizzazione di una Chiesa altra che non conosciamo ancora, una Chiesa dentro e non fuori la realtà, una Chiesa nelle case, una Chiesa realmente locale.
Deve essere un’attuazione della Pasqua, l’esperienza di essere abitati da dentro da una potenza spirituale che attraversa con te la morte, innestandoti profondamente alla vicenda di Cristo, che ti offre la garanzia della rottura della solitudine e della vittoria sulla morte, percependo questo legame come il darsi di una relazione del tutto sproporzionata nell’amore, che ti conduce ad accorgerti del dissolversi dei volti falsi di Dio che ti abitano dentro, e magari ora si stanno rafforzando, riuscendo a illuminarti, fosse solo per un istante, fosse solo di spalle, la presenza di questo Padre che tutto può e vuole, nel suo amore, perché i suoi figli abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, promettendo che nessuno li strapperà dalla sua mano.
Deve essere un atto di recezione attivo, cioè deve condurmi a sentirmi e percepirmi soggetto di ciò che sto compiendo. Una redditio dentro la traditio.
c) Individuando che cosa consenta di far sì che ciò che elaboriamo sia un atto rituale in linguaggi simbolici:
Deve agganciare una dimensione di ripetizione: occorre organizzare tempi, spazi, azioni perché abbiano attinenza con i gesti sacri quotidiani e rituali che compiamo, ma riorganizzandoli per far esperienza di Dio, della morte vinta dalla vita, della sacralità della vita. Se non c’è un minimo di livello di ripetizione, se la novità è eccessiva, non sapremo accorgerci della novità del venirci incontro di Dio.
Devono essere gesti e parole che godano di una intesa tra i soggetti coinvolti: occorre che la scelta di questi luoghi, tempi, gesti conduca alla realizzazione di atti che possano essere compiuti in modo tale che tutti quelli che partecipano percepiscano che lì è in gioco la sacralità della vita e la sua custodia, e che questo avviene in forza di un Volto che mi si rivela, restandomi indisponibile ma sempre in mio favore.
Devono crearsi le condizioni per un salto: deve essere possibile percepire che si sta compiendo qualcosa di diverso, che attraversa la logica ordinaria, ma trasgredendola. Quello che si compie non deve essere del tutto “sensato”, se guardato con gli occhi della sola ordinarietà, ma soprattutto non dev’essere nell’ordine del “produrre” qualcosa, ma dell’esporsi al gratuito che può accadere in quegli atti. Non nell’ordine del “fare una cosa” (che cosa fare?) ma dell’“esporsi al possibile dono”, agendo e sentendo.
Dev’esserci una percepibile pregnanza: deve essere un luogo “carico”, un tempo “carico”, degli atti “carichi” di memoria grata, di esperienza vitale, di emozione mortale, di percezione di qualcosa di sovrabbondante che ci precede e ci supera, che riceviamo ma non abbiamo in alcun modo prodotto…
Deve avere la forma di una incisione corporale: deve funzionare come un’azione che ci marchia col fuoco, che ci “fa male” (e dobbiamo poter percepire che rimette in gioco le paure viscerali) ma che in quel male incide una appartenenza indelebile, come “presa di possesso” di un corpo a cui si è dato forma, e che non verrà abbandonato ora, né mai.
Devono essere incrociate le esperienze elementari della vita: devono essere atti che hanno a che fare con il buio e la luce, la fame e la sete, l’acqua-l’aria-il fuoco-la terra, l’orientamento (il nord-il sud, l’est-l’ovest), con l’attesa e il compimento, il desiderio e il fallimento, la solitudine e la relazione, la paura e la sicurezza/pace, il presente-il passato-il futuro, lo stupore e la meraviglia, il terrore e l’angoscia, l’immaginazione e la realtà, la parola e il silenzio, il corpo e i suoi sensi.
Si deve consentire l’ospitalità di processi simbolici: deve essere l’attraversamento di qualcosa di reale, di percepibile ed di agibile, che mantenga la giusta distanza fra la familiarità di ciò che si compie (che permette di sentirsi realmente soggetti di ciò che si compie) e la “stranezza”/l’irruzione che lasci spazio ad un inatteso da noi non prodotto e non controllato, ma “identificabile”, riconoscibile come il farcisi incontro di Cristo, che ci ospita in lui, salvandoci da morte.
4. Profilo liturgico e profilo ecclesiale
La liturgia lontana, che si fa vicina attraverso la TV o la diretta streeming, resta irrimediabilmente lontana. Anche se a celebrarla è il parroco, il vescovo o il papa. Sostituisce il nulla, e questo è certo qualcosa, ma non permette di celebrare. Una chiesa che sappia la decisiva importanza dell’atto celebrativo, lascia da parte il “collegamento” e la “connessione” e mette in gioco “evidenze primarie”, “parole di tradizione” e “riti potenti”. La TV e internet, a modo loro, non possono che custodire quella “piramide non rovesciata” in cui non troviamo mai la verità della Chiesa. Se la liturgia è il linguaggio di tutti i battezzati, ogni piccola comunità “in quarantena” deve poter celebrare la pasqua, senza delegare ad altri l’atto ecclesiale. Lo farà in comunione con i santi e con la Chiesa, ma dovrà farlo essa stessa. Perciò la dimensione familiare – ridotta anche a quel minimo di famiglia che è il singolo cittadino e fedele nel suo appartamento – potrà e dovrà entrare nella dinamica di parola e sacramento. E dovrà farlo col corpo, con tutti i sensi, non solo con la vista affamata di immagini sacre sullo schermo. Una “dieta degli occhi” e un “nutrimento sostanzioso” degli altri sensi sarà la logica di una Chiesa che è dispersa, ma non si perde, che è frazionata, ma non infranta, che è appartata, ma non isolata, bensì consolata dal linguaggio comune che attraversa i corpi, scalda i cuori e nutre le menti. L’annuncio della Risurrezione, in quanto evento corporeo, suppone una Chiesa che sappia ancora dare la parola al proprio corpo integrale. Questa è la speranza. Anche in questo tempo dilatato e minaccioso, che inquieta e addolora, ma dischiude nuovi passi possibili, necessari, forse decisivi.
5. La Cena del Signore nelle Chiese domestiche
Proviamo, nell’orizzonte di quanto espresso fino ad ora, a immaginare come potremmo celebrare la Cena del Signore nelle nostre case, come autentiche Chiese domestiche.
Ci lasciamo guidare dalla liturgia, adattandola ai nostri contesti. E’ solo un esempio possibile di “radicazione” della liturgia ecclesiale nel nostro mondo e modo di vita.
La nostra potrebbe essere una riformulazione attuale della cena pasquale ebraico-cristiana, scegliendo volentieri, con intelligenza, di adottare forme “spurie”, adatte alla situazione da “ospedale da campo” che stiamo vivendo.
a) “Nella tua gloria” (Contemplazione della croce di gloria)
La liturgia ci farebbe iniziare con un canto ispirato a questa antifona d’ingresso:
Di null’altro mai ci glorieremo
se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore:
egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione;
per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati. (cf Gal 6,14)
Potremmo predisporre un angolo particolare della casa, che diventa un po’ unico nel triduo e in tutto il tempo pasquale, in cui collocare in maniera stabile un crocifisso significativo, per valore affettivo, per pregio estetico, o perché realizzato in famiglia.
Potremmo iniziare raccogliendoci lì, se possibile con le luci un po’ soffuse (mantenendole così per tutto il tempo), non prima di quando inizia a scendere la sera.
Potremmo contemplare la croce cantando un ritornello con le parole dell’antifona, se lo conosciamo, o con parole simili, o proclamandole. Potremmo condividerci, anche creandolo, un ritornello ad hoc, di semplice bellezza, come comunità parrocchiale, o come diocesi, e farlo girare in modo da riuscire ad impararlo per tempo.
Potremmo trovare brevissime parole per orientare la contemplazione verso lo stupore della gloria, e intuire che la gloria di Dio nella croce di Cristo ha a che fare con il suo avere peso nella storia, anche la nostra. Potremmo, allora, cantare il canto del gloria per confessare la lode al Dio che in Cristo viene a fare della nostra storia una storia della salvezza. Potremmo alternare un ritornello del gloria, con delle espressioni di lode che facciano eco a situazioni della storia della salvezza in cui la gloria del Signore si è manifestata, e con le quali si possa percepire che la nostra situazione ha attinenza.
b. “custodisci la nostra vita” (rito di custodia dal male: la porta)
In quello stesso “angolo speciale” potremmo porre un vaso, magari trasparente, colmo di acqua.
Potremmo attingere da esso, e abitare uno dei nostri luoghi più “carichi” di problema, di male. Come per gli ebrei, la soglia, la porta di casa. Non possiamo attraversarla, perché fuori c’è il male, dentro, invece, la sicurezza di vita. Gli ebrei hanno compiuto un gesto apotropaico aspergendo la soglia con il sangue dell’agnello che poi avrebbero consumato. Noi potremmo lavare stipiti e maniglia con l’acqua, compiendo un gesto che in questo tempo stiamo facendo di frequente per proteggerci, ma offrendogli un contesto diverso, che lo risignifica esponendolo alla presenza di Dio, in modo che questo stesso gesto abbia la forza di risignificare ogni altro “lavaggio” che compiremo nella quotidianità. “Marchiamo” la soglia di casa con l’acqua che riceviamo dalla contemplazione della gloria di Cristo sulla croce e dalla confessione del suo peso nella storia, che si fa speranza di farne esperienza nella nostra.
Potremmo accompagnare il gesto con una parte del Sal 120:
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.
Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.
Il Signore veglierà su di te, quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.
Quella stessa acqua (da rifornire, quando finisce) potrebbe essere la stessa acqua da cui si attinge per riempire la brocca per la cena, e quindi da bere durante la cena, e la stessa acqua da cui attingere per lavarci le mani prima di sederci a tavola, magari utilizzando un catino, e il sapone. E la stessa acqua e lo stesso catino con cui si vivrà la lavanda dei piedi. Lo stesso catino e la stessa acqua potrebbero trovare posto nel nostro angolo speciale, affianco al vaso con l’acqua pulita. Come acqua “carica” del passaggio salvifico di Dio. Non andrà buttata, andrà conservata, almeno per il tempo pasquale.
Mentre si varca la soglia, rientrando in casa, si può raccontare, in forma breve, la cena ebraica: come Dio chiese agli ebrei di aspergere di sangue gli stipiti delle porte delle loro case, per difenderli dallo sterminio della morte, oggi noi li purifichiamo con l’acqua della vita, invocando la stessa protezione.
Ci si lava le mani. Si attinge l’acqua da mettere a tavola.
c. “ammettici al banchetto del tuo regno” (rito di alleanza)
Potremmo sederci a tavola, iniziando la cena “benedicendo la mensa” con la citazione di Apocalisse (3,20; 22,20):
Dice il Signore: ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.
R. Vieni, Signore Gesù.
Si inizia la cena. È importante che sia una cena in cui si possa porre enfasi sul pane e sul vino. Sarebbe bello se il pane fosse preparato in casa, magari insieme, e ne bastasse per il giorno dopo. Di fronte al pane e al vino, condividendoli e gustandoli, ci si potrebbe aiutare reciprocamente a scoprire quante relazioni, quanto lavoro, quanta natura, quanta provvidenza, quanta Scrittura c’è in essi. E quando si arriva a percepire – parlandosi, magari anche con racconti “di una volta”, scambiandosi queste parole cariche di gratitudine e di stupore – che si sta toccando la dimensione di alleanza, si proclama il racconto di istituzione in 1Cor 11, 23-26.
d. “perché possiamo avere parte con te” (rito di custodia dal male: l’amore fino alla fine)
Dopo la proclamazione del racconto della cena, si potrebbe compiere una reciproca lavanda dei piedi (lasciando la cena lì dov’è…). Come avvertendo l’urgenza di agire nella medesima logica di alleanza che ci fanno sperimentare il pane e il vino, e il racconto. Chi sta guidando la preghiera si alza, va a prendere un asciugamano, attinge dell’acqua dal vaso e prende il catino, e chiede di poter lavare i piedi degli altri membri della famiglia, che potrebbero anche non sapere del gesto. Lava i piedi con il sapone, li bacia, e li lava ancora col sapone (in modo da non costituire alcun motivo di contagio). Ma almeno così finalmente si può tornare a dare un bacio, avvertendolo non pericoloso, ma vitale per dire fino a che punto la vita dell’altro mi sta a cuore, fino a che punto la vita dell’altro sta a cuore a Dio, e voglio che sia sottratta dalla presa del male. Se il contesto lo permette, si potrebbe, appunto, vivere il gesto con reciprocità, perché ciascuno possa riaccedere a questo con-tatto essenziale, risignificato cristologicamente. Il tempo in cui siamo entrati, con la nostra “quarantena”, non è un tempo frettoloso, per cui la cena, e il gesto stesso della lavanda dei piedi, può finalmente non essere così stilizzato da essere resa insignificante; può prendere tutto il tempo, simbolico e poetico, di cui necessita.
Dopo aver compiuto la lavanda dei piedi, si potrebbe proclamare il Vangelo (Gv 13,1-15), e lasciare un po’ di silenzio, perché possano emergere dentro di sé le sensazioni, i pensieri, le percezioni legate a quanto si sta vivendo.
Il silenzio, potrebbe poi aprirsi e diventare intercessione, per tutti coloro che abbiamo a cuore, e che desidereremmo lavare per preservare dal male, e raggiungere con il nostro bacio di amore e di dedizione, di benedizione e di eternità. Queste preghiere sarebbero poi raccolte nella preghiera fondamentale, nel Padre nostro, dove è Lui che raccoglie nelle sue mani le nostre vite, liberandoci dal male.
e. Entriamo nella notte, accompagnati dal profumo (rito di entrata nella notte)
L’angolo “speciale” della casa, che è importante sia in qualche modo un po’ “isolabile”, percepibile come diverso, può diventare un luogo importante per accompagnare il tempo pasquale come chiave di accesso al tempo della minaccia della pandemia. Lì restano la croce, la Sacra Scrittura, il vaso con l’acqua “pura” e il catino con l’acqua che ha purificato. Lì, a conclusione della cena, si può porre il pane per il giorno dopo, quel pane che oggi è carico di senso, e dovrà esser capace di dar senso anche al dramma del giorno dopo.
Lì si accende una candela profumata, e la si lascia accesa mentre si riordina la casa, dopo cena, così che il profumo si diffonda.
Dall’inizio della cena si potrebbe sospendere l’utilizzo dei vari mezzi di comunicazione, ed entrare in un silenzio di profondità.
Finita la sistemazione, pronti per andare a letto, ci si potrebbe raccogliere, in silenzio, in questo angolo sacro di casa, lasciando entrare in sé il chiarore della luce della candela, mentre ogni altra luce è spenta, e il suo profumo si diffonde. Ci si potrebbe dare lì la buona notte, riprendendo il Sal 120, per intero:
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno,
il custode d’Israele.
Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre,
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.
Il Signore veglierà su di te, quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.
Si potrebbe concludere con il Gloria al Padre, affidarsi all’intercessione materna di Maria, e spegnere la candela, curando prima che il percorso per raggiungere le stanze al buio sia facilmente percorribile. Si potrà, così, entrare nella notte che prepara la morte, accompagnati dal profumo che riesce ad abitarla anche quando l’ultima luce dovesse spegnersi.
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