Intervista a mons. Mario Grech, nuovo Segretario del Sinodo dei Vescovi
di Antonio Spadaro - Simone Sereni
pubblicato il 3 Ottobre 2020
Mons. Mario Grech è il nuovo Segretario generale del Sinodo dei Vescovi. Maltese, nato nel 1957, è stato nominato vescovo di Gozo nel 2005 da Benedetto XVI. Dal 2013 al 2016 è stato presidente della Conferenza episcopale di Malta. Il 2 ottobre 2019 papa Francesco lo aveva già nominato pro-segretario generale del Sinodo dei Vescovi, e per questo ha partecipato al Sinodo per l’Amazzonia. L’esperienza pastorale di mons. Grech è ampia. La sua affabilità e capacità di ascolto delle domande ci hanno spinti a realizzare una conversazione libera.
A partire dalla condizione della Chiesa nel tempo della pandemia – una ecclesiologia nella condizione di lockdown – e alle relative sfide importanti per l’oggi, si è passati naturalmente a riflessioni sui sacramenti, sull’evangelizzazione, sul significato della fratellanza umana, e quindi della sinodalità, che mons. Grech vede a essa legata. Una sezione dell’intervista è dedicata, in particolare, alla famiglia «piccola Chiesa domestica»: è anche questo il motivo per il quale la conversazione è stata realizzata insieme da un sacerdote e da un laico che è marito e padre.
Mons. Grech, il tempo della pandemia che stiamo ancora attraversando ha costretto il mondo a fermarsi. Le case sono diventate luogo di rifugio dal contagio, le strade si sono svuotate. La Chiesa ha partecipato di questo clima di sospensione. La celebrazione pubblica della liturgia non è stata possibile. Quali sono state le sue considerazioni da vescovo, da pastore?
Se cogliamo questa come una opportunità, essa può diventare un momento di rinnovamento. La pandemia ha portato alla luce una certa ignoranza religiosa, una povertà spirituale. Alcuni hanno insistito sulla libertà di culto, però hanno parlato poco di libertà nel culto. Abbiamo dimenticato la ricchezza e la varietà delle esperienze che ci aiutano a contemplare il volto di Cristo. Qualcuno ha persino detto che la vita della Chiesa è stata interrotta! E questo è davvero incredibile. Nella situazione che impediva la celebrazione dei sacramenti non abbiamo colto che c’erano altri modi attraverso i quali abbiamo potuto fare esperienza di Dio.
Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù dice alla samaritana: «Viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano» (Gv 4,21-23). La fedeltà del discepolo a Gesù non può essere compromessa dalla temporanea mancanza della liturgia e dei sacramenti. Il fatto che molti sacerdoti e laici siano andati in crisi perché di colpo ci siamo trovati nella situazione di non poter celebrare l’Eucaristia coram populo è di per sé molto significativo.
Durante la pandemia è emerso un certo clericalismo, anche via social. Abbiamo assistito a un grado di esibizionismo e pietismo che sa più di magia che di espressione di fede matura.
Qual è dunque la sfida per l’oggi?
Quando il tempio di Gerusalemme, dove Gesù pregava, fu distrutto, gli ebrei e i gentili, non avendo il tempio, si sono riuniti attorno alla tavola di famiglia e hanno offerto sacrifici con le loro labbra e la preghiera di lode. Quando non poterono più seguire la tradizione, sia gli ebrei sia i cristiani presero in mano la Legge e i Profeti e li reinterpretarono in modo nuovo[1]. Questa è la sfida anche per oggi.
Yves Congar, quando scrive sulla riforma di cui la Chiesa ha bisogno, afferma che l’aggiornamento conciliare deve spingersi all’invenzione di un modo di essere, di parlare e di impegnarsi che risponda all’esigenza di un totale servizio evangelico al mondo. Invece, tante iniziative pastorali in questo periodo sono state incentrate attorno alla figura del presbitero da solo. La Chiesa, in questo senso, appare troppo clericale, e il ministero è controllato dai chierici. Anche i laici spesso si fanno condizionare da uno schema di forte clericalismo.
L’esperienza che abbiamo vissuto ci costringe ad aprire gli occhi sulla realtà che stiamo vivendo nelle nostre chiese. Dobbiamo riflettere per interrogarci circa la ricchezza dei ministeri laicali nella Chiesa, capire se e come si sono espressi. A che vale la professione della fede se poi questa stessa fede non diventa lievito che trasforma l’impasto della vita?
Quali sono per Lei gli aspetti della vita della Chiesa che sono emersi dall’ombra in questo tempo?
Abbiamo scoperto una nuova ecclesiologia, forse anche una nuova teologia, e un nuovo ministero. Questo dunque indica che è il momento di fare le scelte necessarie per costruire su questo nuovo modello di ministero. Sarà un suicidio se, dopo la pandemia, torneremo agli stessi modelli pastorali che abbiamo praticato fino a ora. Spendiamo enormi energie per cercare di «convertire» la nostra società secolare, mentre è più importante «convertirci» per realizzare la «conversione pastorale» di cui parla spesso papa Francesco.
Trovo curioso che molti si siano lamentati del fatto di non poter ricevere la comunione e celebrare i funerali in chiesa, ma che non altrettanti si siano preoccupati di come riconciliarsi con Dio e con il prossimo, di come ascoltare e celebrare la Parola di Dio e di come vivere il servizio.
Circa la Parola, poi, dobbiamo auspicare che questa crisi, i cui effetti ci accompagneranno a lungo, possa essere un momento opportuno per noi, come Chiesa, per riportare il Vangelo al centro della nostra vita e del nostro ministero. Molti sono ancora «analfabeti del Vangelo».
A questo proposito, Lei prima accennava alla questione della povertà spirituale: quale natura ha, e quali sono le cause più evidenti, secondo Lei?
È innegabile che l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana o, come altri preferiscono dire, culmine e fonte della stessa vita della Chiesa e dei fedeli[2]; ed è altrettanto vero che «la celebrazione liturgica […] è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado»[3]; però l’Eucaristia non è l’unica possibilità che il cristiano ha per fare esperienza del mistero e per incontrarsi con il Signore Gesù. È molto puntuale l’osservazione fatta da Paolo VI quando scrive che nell’Eucaristia «la presenza di Cristo è “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”»[4].
Perciò c’è da preoccuparsi quando fuori del contesto eucaristico o cultuale uno si sente smarrito perché non conosce altri modi di agganciarsi con il mistero. Questo non soltanto indica che esiste un certo analfabetismo spirituale, ma è una prova dell’inadeguatezza dell’attuale prassi pastorale. Con molta probabilità nel passato recente la nostra attività pastorale ha cercato di iniziare ai sacramenti e non di iniziare – attraverso i sacramenti – alla vita cristiana.
La povertà spirituale e l’assenza di un incontro vero con il Vangelo hanno tante implicazioni…
Certo. E poi non si può incontrare davvero Gesù senza impegnarsi con la sua Parola. Circa il servizio, ho pensato: ma quei medici e infermieri che rischiavano la vita per rimanere vicino ai malati non hanno trasformato i reparti ospedalieri in altre «cattedrali»? Il servizio agli altri all’interno del proprio lavoro quotidiano esasperato dalle esigenze dell’emergenza sanitaria è stato anche per i cristiani il modo fisiologico di esprimere la loro fede, di una Chiesa presente nel mondo di oggi, e non più una «Chiesa della sacrestia», ritirata dalle strade, o che si accontenta di proiettare la sacrestia nella strada.
Dunque, questo servizio può essere una via di evangelizzazione?
Lo spezzare il pane eucaristico e la Parola non può avvenire senza lo spezzare il pane con chi non ne ha. E questa è la diakonia. I poveri sono teologicamente il volto di Cristo. Senza i poveri si perde il contatto con la realtà. Allora, così com’è necessario l’oratorio in parrocchia, è importante la presenza della mensa dei poveri nel senso lato della parola. La diakonia o il servizio dell’evangelizzazione del sociale è una dimensione costitutiva dell’essere Chiesa, della sua missione.
Come la Chiesa è missionaria per natura, così da questa natura missionaria sgorga la carità per il prossimo, la compassione, che è capace di comprendere, assistere e promuovere. Il modo migliore per sperimentare l’amore cristiano è il ministero del servizio. Molte persone non sono attratte dalla Chiesa perché hanno partecipato a lezioni di catechismo, ma perché hanno partecipato a una significativa esperienza di servizio. E questa via di evangelizzazione è fondamentale nell’attuale epoca di cambiamento, come ha osservato il Santo Padre nel suo discorso alla Curia del 2019: «Non siamo più in un regime di cristianità».
La fede, infatti, non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune. La mancanza di fede, o meglio ancora la morte di Dio, è un’altra forma di pandemia che fa morire la gente. Mi viene in mente l’affermazione paradossale di Dostoevskij nella sua Lettera a Fonvizina: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». Il servizio rende manifesta la verità propria di Cristo.
Lo spezzare il pane anche in casa, durante il «lockdown», ha acceso finalmente la luce sulla vita eucaristica ed ecclesiale che si sperimenta fisiologicamente nella quotidianità di tante famiglie: si può dire che la casa sia tornata a essere Chiesa, anche in senso liturgico?
A me è parso chiarissimo. E chi, durante questo periodo nel quale la famiglia non ha avuto l’opportunità di partecipare all’Eucaristia, non ha colto l’occasione per aiutare le famiglie a sviluppare il loro potenziale proprio, ha perso un’occasione d’oro. D’altra parte, ci sono state diverse famiglie che in questo tempo di restrizioni si sono rivelate, di propria iniziativa, «creative nell’amore»: dal modo in cui i genitori hanno accompagnato i più piccoli alle forme di home-schooling, dall’aiuto offerto agli anziani e contro la solitudine alla creazione di spazi per la preghiera fino alla disponibilità verso i più poveri. Che la grazia del Signore moltiplichi questi esempi belli e faccia riscoprire la bellezza della vocazione e i carismi nascosti all’interno di tutte le famiglie.
Prima parlava di una «nuova ecclesiologia» che emerge dall’esperienza forzata dal «lockdown». Questa riscoperta della casa cosa suggerisce?
Che qui sta il futuro della Chiesa: nel riabilitare la Chiesa domestica e lasciarle più spazio. Una Chiesa-famiglia costituita da un numero di famiglie-Chiesa. Questo è il presupposto valido della nuova evangelizzazione, della quale sentiamo così tanto la necessità tra di noi. Dobbiamo vivere la Chiesa all’interno delle nostre famiglie. Non c’è confronto fra la Chiesa istituzione e la Chiesa domestica. La Chiesa grande comunità è costituita da piccole Chiese che si riuniscono nelle case. Se la Chiesa domestica viene a mancare, la Chiesa non può sussistere. Se non c’è Chiesa domestica, la Chiesa non ha futuro! La Chiesa domestica è la chiave che ci apre orizzonti di speranza!
Nel libro degli Atti degli Apostoli abbiamo una descrizione dettagliata della Chiesa di famiglia, domus ecclesiae: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Nell’Antico Testamento, la casa di famiglia era il luogo dove Dio si rivelava e dove si celebrava la Pasqua ebraica, la più solenne celebrazione della fede ebraica. Nel Nuovo Testamento, l’Incarnazione è avvenuta in una casa, il Magnificat e il Benedictus sono stati cantati in un casa, la prima Eucaristia si è svolta in una casa, così come l’invio dello Spirito Santo nella Pentecoste. Nei primi due secoli la Chiesa si è sempre riunita nella casa di famiglia.
Nella vulgata recente si usa spesso l’espressione «piccola Chiesa domestica», con una nota riduzionista, forse involontaria… Questa narrativa può aver contribuito a depotenziare la dimensione ecclesiale della casa e della famiglia, così facilmente comprensibile a tutti, e che oggi ci appare così evidente?
Siamo forse ancora in questo stato, a causa del clericalismo, che è una delle perversioni della vita presbiterale e della Chiesa, nonostante il Concilio Vaticano II abbia recuperato la nozione di famiglia come «Chiesa domestica»[5] e abbia sviluppato l’insegnamento sul sacerdozio comune[6]. Ultimamente ho letto, in un articolo sulla famiglia, questa puntuale affermazione: la teologia e il valore della pastorale in famiglia come «Chiesa domestica» hanno avuto una svolta negativa nel secolo IV, quando avvenne la «sacralizzazione» dei presbiteri e dei vescovi, a danno del sacerdozio comune del battesimo, che cominciava a perdere il suo valore. Più è stata attuata l’«istituzionalizzazione» della Chiesa, più si sono logorate la natura e il carisma della famiglia in quanto Chiesa domestica.
Non è la famiglia a essere sussidiaria della Chiesa, ma è la Chiesa a dover essere sussidiaria della famiglia. In quanto la famiglia è struttura basilare e permanente della Chiesa, a essa, domus ecclesiae, dovrebbe essere restituita una dimensione sacrale e cultuale. Sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo insegnano, sulla scia del giudaismo, che la famiglia dovrebbe essere un ambiente dove la fede possa essere celebrata, meditata e vissuta. È dovere della comunità parrocchiale aiutare la famiglia a essere scuola di catechesi e aula liturgica dove possa essere spezzato il pane sul tavolo della cucina.
Chi sono i ministri di questa «Chiesa-famiglia»?
Per san Paolo VI, il sacerdozio comune viene vissuto in modo eminente dagli sposi muniti dalla grazia del sacramento del matrimonio[7]. Anche i genitori, quindi, in virtù del loro sacramento, sono i «ministri del culto», che durante la liturgia domestica spezzano il pane della Parola, pregano con essa, e così avviene la trasmissione della fede ai figli. Il lavoro dei catechisti è valido, ma non può sostituire il ministero della famiglia. La stessa liturgia della famiglia avvia i membri a partecipare più attivamente e consapevolmente alla liturgia della comunità parrocchiale. Tutto ciò aiuta affinché avvenga il passaggio dalla liturgia clericale a quella familiare.
Oltre allo spazio strettamente domestico, Lei crede che la specificità di questo «ministero» della famiglia, degli sposi e del matrimonio possa e debba avere anche un rilievo, profetico e missionario, per tutta la Chiesa come pure nel mondo? In quali forme, per esempio?
Nonostante da decenni la Chiesa ribadisca che la famiglia è soggetto dell’azione pastorale, temo che per molti versi questo ormai sia diventato parte della retorica della pastorale familiare. Molti tuttora non sono convinti del carisma evangelizzatore della famiglia, non credono che la famiglia abbia una «creatività missionaria». C’è molto da scoprire e integrare. Ho avuto personalmente un’esperienza molto stimolante nella mia diocesi con la partecipazione delle coppie e delle famiglie alla pastorale familiare. Alcune coppie si sono occupate della preparazione al matrimonio; altre hanno accompagnato i novelli sposi nei primi cinque anni di nozze.
Arricchiti dall’esperienza nelle proprie famiglie, i coniugi non soltanto sono in grado di condividere testimonianze di fede incarnata nelle vita familiare quotidiana, ma riescono anche a trovare un nuovo linguaggio teologico-catechetico per la proclamazione del Vangelo della famiglia. Sull’esempio della «Chiesa in uscita», la «Chiesa domestica» deve orientarsi a uscire di casa; perciò va anche messa nelle condizioni di assumersi le proprie responsabilità come soggetto sociale e politico. Come ha sottolineato papa Francesco, Dio «ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo»[8].
La famiglia «è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene»[9]. Una sintesi di tutto questo si trova nel Documento finale del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, dove i padri sinodali scrivono: «La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale»[10].
Torniamo ora a considerare un orizzonte più ampio. Il virus non ha conosciuto barriere. Se sono emersi egoismi individuali e nazionali, è vero che è palese oggi che sulla Terra viviamo una fondamentale fratellanza umana.
Questa pandemia dovrebbe condurci a una nuova comprensione della società contemporanea, e portarci a discernere una nuova visione della Chiesa. Si dice che la storia è maestra, ma spesso non ha scolari! Proprio per causa del suo egoismo e individualismo, l’uomo ha una memoria selettiva. Non solo cancella dalla sua memoria le fatiche da lui stesso provocate, ma è anche capace di dimenticare il suo prossimo. Per esempio, in questa pandemia le considerazioni economiche e finanziarie hanno spesso avuto il sopravvento sul bene comune. Nei nostri Paesi occidentali, benché ci vantiamo di vivere in un regime democratico, in pratica tutto è mosso da chi possiede il potere politico o economico. Invece, abbiamo bisogno di riscoprire la fratellanza. Assumendo la responsabilità legata al Sinodo dei Vescovi, penso che sinodalità e fratellanza siano due termini che si richiamano l’un l’altro.
In che senso? La sinodalità è proponibile anche alla società civile?
Una caratteristica essenziale del processo sinodale nella Chiesa è il dialogo fraterno. Nel suo discorso all’inizio del Sinodo sui giovani, papa Francesco ha detto: «Il Sinodo deve essere un esercizio di dialogo anzitutto tra quanti vi partecipano»[11]. E il primo frutto di questo dialogo è che ciascuno si apra alla novità, a modificare la propria opinione, a gioire per quanto ha ascoltato dagli altri[12]. Inoltre, all’inizio dell’Assemblea speciale del Sinodo per la regione panamazonica, il Santo Padre ha fatto un richiamo alla «mistica della fraternità»[13], e ha sottolineato l’importanza di un’atmosfera fraterna tra i padri sinodali, «custodendo la fraternità che deve esistere qui dentro»[14].
Questa cultura di «dialogo fraterno» aiuterebbe tutte le assemblee – politiche, economiche, scientifiche – a trasformarsi in luoghi di incontro e non di scontro. In un’epoca come la nostra, nella quale assistiamo a un’eccessiva rivendicazione di sovranità degli Stati e a un ritorno al classismo, i soggetti sociali potrebbero rivalutare questo approccio «sinodale», che faciliterebbe un cammino di avvicinamento e una visione cooperativa. Come sostiene Christoph Theobald, questo «dialogo fraterno» può aprirci una pista per superare la «lotta tra interessi concorrenziali»: «Solo un sentimento reale e quasi-fisico di “fraternità” può rendere possibile un superamento della lotta sociale e dare accesso ad un’intesa e ad una coesione, pur sempre fragile e provvisoria. L’autorità si trasforma qui in “autorità della fraternità”; trasformazione che suppone un’autorità fraterna, capace di suscitare, per contagio, l’evangelico sentimento di fraternità – o lo “spirito di fratellanza”, secondo l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – là dove le tormente della storia rischiano di ingoiarla»[15].
In questo quadro sociale riecheggiano con forza le parole lungimiranti del Santo Padre, quando ha detto che una Chiesa sinodale è come vessillo innalzato tra le nazioni in un mondo che invoca partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica, ma che invece consegna spesso il destino di tanta gente nelle mani avide di ristretti gruppi di potere. Come Chiesa sinodale che «cammina insieme» agli uomini ed è partecipe dei travagli della storia, dobbiamo coltivare il sogno di riscoprire la dignità inviolabile dei popoli e la funzione di servizio dell’autorità. Questo contribuirà a vivere in maniera più fraterna e a costruire un mondo più bello e più degno dell’uomo per chi verrà dopo di noi[16].
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[1]. Cfr T. Halik, «Questo è il momento per prendere il largo», in Avvenire, 5 aprile 2020, 28.
[2]. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium (SC), n. 10, 4 dicembre 1963.
[3]. SC 7.
[4]. Paolo VI, s., Lettera enciclica Mysterium fidei, n. 40, 3 settembre 1965.
[5]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Lumen gentium (LG), n. 11; Decreto Apostolicam actuositatem (AA), n. 11.
[6]. Cfr LG 10.
[7]. Cfr Paolo VI, s., Udienza generale, 11 agosto 1976.
[8]. Francesco, Udienza generale, 16 settembre 2015.
[9]. Id., Esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia, n. 181, 19 marzo 2016.
[11]. Francesco, Discorso all’inizio del Sinodo dedicato ai giovani, 3 ottobre 2018.
[12]. Cfr ivi.
[13]. Id., Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 92, 24 novembre 2013.
[14]. Id., Saluto all’apertura dei lavori dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione panamazzonica, 7 ottobre 2019.
[15]. C. Theobald, Dialogo e autorità tra società e Chiesa, prolusione in occasione del «Dies academicus» della Facoltà teologica del Triveneto, 22 novembre 2018.
[16]. Cfr Francesco, Discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015.
http://laciviltacattolica.it/articolo/la-chiesa-sulla-frontiera/?s=08
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