pubblicato il 31 Maggio 2020
Da molti secoli, principalmente da quando il cristianesimo è diventato una religione di stato, è avvenuto un lento ma inesorabile “pervertimento” (per dirla con Illich) del messaggio evangelico. Se si rilegge questo passo degli Atti degli apostoli (2,44-47), si coglie subito l’entità del deragliamento.
“Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le necessità di ciascuno. Ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio. Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore. Lodavano Dio ed erano benvisti da tutta la gente.”
Tutti i credenti vivevano insieme: vivere insieme, vuol dire affrontare insieme tutti i problemi della vita: difficoltà, malattie, povertà, solitudine. Insieme vuol dire, non nella stessa casa, ma nella stessa dimensione di fede, di fiducia in Dio. Per cui ci si sente “confortati” dalla certezza dell’amore e della solidarietà reciproci. Oggi (ma non solo) questa dimensione comunitaria, se non persa, si è molto affievolita. La religione come recinto del sacro, ha cancellato il “vivere insieme”, sostituendolo con il “frequentare insieme” il culto, il rito. Cattedrali e chiese, avulse dalla vita, in cui gruppi di sconosciuti o reciprocamente indifferenti, assistono allo spettacolo del presbiterio. Entrano col loro dolore ed escono col loro dolore, sperando che Dio li abbia ascoltati. Sono invitati alla gioia, ma non ci può essere gioia, se non c’è condivisione!
“e mettevano in comune ciò che possedevano, vendevano le loro proprietà e i loro beni”
In una comunità di credenti (nel Vangelo di Gesù), in una comunità di gente che si conosce e si ama fraternamente, la povertà assoluta non esiste. Infatti chi ha di più vende l’eccedente e lo condivide. Lo mette in comune. Così nessuno è escluso e tutti possono vivere dignitosamente.Oggi (ma non solo), abbiamo delegato la carità alla Chiesa, alle associazioni preposte, ai gruppi missionari, alle onlus. Basta un’offerta anonima, anche modesta rispetto alle possibilità, per sentirsi a posto. Non si conosce il destinatario, si bypassa la relazione fraterna. E dunque parlare di poveri, di primato della povertà, di fraternità per la realizzazione del regno, è diventato un esercizio retorico.
Delegare la carità alle istituzioni ha pervertito il cristianesimo! Gesù infatti ci aveva lasciato un messaggio chiaro da parte di Dio e pagato con la sua vita: la salvezza dell’uomo sta tutta nella “relazione”, nella prossimità accogliente, nella condivisione del pane e dei beni. Egli infatti disse al buon giovane ricco: “Se vuoi stare con me, vai vendi tutto e dallo ai poveri…”. La carità (anche materiale) non si può delegare, altrimenti diventa erogazione di un servizio. La carità è qualcosa di più del welfare: implica una relazione amorosa!
“e distribuivano i soldi fra tutti secondo le necessità di ciascuno.”
Ognuno ha necessità e sentimenti diversi che vanno rispettati. Non possiamo ridurre l’uomo a una categoria. Il migrante, il senzatetto, il misero pensionato, il campesino, l’africano… L’uomo non è il suo status sociale.
In una comunità piccola di credenti, l’amore, l’aiuto viene dato secondo le necessità, con l’attenzione e la delicatezza del caso. Rispettare le necessità implica anche il considerare una scala di valori. Avviene una valutazione dei bisogni in chi dà: Manca il pane? Manca la casa? Manca il libro? Manca la macchina necessaria per il lavoro? Mancano le medicine? E chi riceve, consapevole del dono, lo usa ragionevolmente, perché sa che per lui altri si sono privati di un bene.
“ogni giorno frequentavano il tempio e pregavano insieme.”
Una comunità che condivide il pane quotidiano, che si sostiene nel bisogno, che vive insieme momenti di gioia e di pace, desidera ringraziare Dio padre che ha permesso tutto ciò. Lode e ringraziamento per il dono della vita insieme. Il tempio non è più estraneo alla vita, un recinto sacro separato. La comunità non è (come oggi e non solo) un gruppo che si raduna per celebrare un rito. Ognuno per sè. Indifferente al fratello che siede accanto. Anche nei piccoli borghi, dove ci si conosce.
“spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore”
L’eucarestia è dunque uno spezzare il pane, non in chiesa, ma nelle case: perché lì, dove si condivide tutto, si può spezzare anche il pane che ricorda Gesù, la sua vita, la sua testimonianza. Lo spezzi con gioia perché sai che nessuno soffre da solo, è povero da solo, è felice da solo. Mentre oggi (e non solo), abbiamo trasformato l’eucarestia in un rito intimista, pseudo magico, spiritualizzato al punto da fargli perdere ogni significato…
“lodavano Dio ed erano ben visti dalla gente.”
Queste piccole, e a un primo sguardo insignificanti comunità, erano però “ben viste”: erano dunque il segno di un modo di vivere diverso, all’interno del loro stesso paese, libero e liberato, accogliente verso tutti quelli che volevano farne parte. Certo per farne parte bisognava cambiare la logica del “farsi i fatti propri”, del “ognuno si arrangi”, del “accumulare per se”. Bisognava purificarsi dalla logica del “contare”, logica da sempre portatrice di corruzione. Esse erano una porta aperta, un’alternativa credibile, un luogo di resurrezione e di libertà. Mentre oggi (e non solo) a che cosa sono ridotte le cosiddette “comunità cristiane”? A gruppi parrocchiali divisi per età, per funzione, per appartenenza a movimenti ecclesiali. Quando va bene.
Perché oggi la chiesa/comunità cristiana dovrebbe essere significativa? Perché, da Roma, il papa dice alcune cose sull’accoglienza e sull’ecologia? Perché c’è un bel gruppo missionario? Perché si recita il rosario? Perché si organizzano pellegrinaggi e Gmg? Perché se c’è un problema magari il prete coi suoi agganci ti aiuta? Perchè i riti sono belli ed evocativi?
A quanto pare tutto ciò non basta più. Gli orpelli di una religione di stato mostrano oggi tutta la loro insignificanza. Gli scandali originati dal concubinato col potere e col “mondo”, hanno travolto la Chiesa.
“Non siamo visti bene”. Si può fare a meno di noi. Il mondo pare sopravvivere anche senza Dio.
La Chiesa è finita? Sì, “questa chiesa”, se non finita, è certamente morente. Ciò che non ha voluto lasciare (in termini di ricchezza, di potere, di trionfalismo, di clericalismo), convertendosi al vangelo, cadrà da solo, per abbandono del popolo.
Lo dico con gioia e non con intenti apocalittici.
Ogni crisi profonda infatti, porta alla luce qualcosa di buono, perché cadono le idolatrie e la verità può manifestarsi nella sua trascinante nudità.
Noi credenti in Gesù, potremmo finalmente tornare a Gerusalemme. Ricostituire le piccole e silenziose comunità descritte negli atti degli apostoli. Essere veramente il lievito nella pasta e il granello di senape. Ricostruire dal basso la chiesa dei credenti. Lasciare al loro destino le strutture e i poteri. Mantenere un’istituzione semplice, snella, orizzontale, sinodale, in cui i vescovi siano guide profetiche e non impiegati amministrativi e il papa sia un primus inter pares , garante dell’unità, testimone della sapienza e della tradizione apostolica e non un capo di stato, in cui il popolo di Dio (uomini e donne), si senta coinvolto, partecipe, responsabile della realizzazione del regno. E al centro sia posto Gesù e la sua parola. Infatti come ci dice padre Silvano Fausti…
“Il testo degli atti ci presenta il modello della vita “salvata”. Sappiamo cosa vuol dire “salvato”; quando uno fa un lavoro al computer magari molto impegnativo, e per lungo tempo, e poi si dimentica di salvarlo, perde tutto. Lo stesso vale per la nostra vita (e per la Chiesa n.d.r). Se non è salvata, ancorata a ciò che tiene, a certe cose, è una vita da nulla, anzi che produce il nulla e la morte. Quindi si intende una vita che sia vivibile, bella e piena, una vita dove si può vivere con l’altro, senza mangiare l’altro; dove possiamo stabilire relazioni che siano valide; dove l’uomo appunto è “relazione”, e tutto il resto è in funzione del vivere la propria umanità. Non l’umanità in funzione di tutte le cose, ma tutte le cose, tutti i beni, in funzione dell’uomo…”[1]
Da questa “conversione” soltanto, si può ripartire. Con umiltà, gioia e speranza!
[1] Silvano Fausti, Atti degli apostoli, EDB ed, Volume I, pag. 98
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