di Ermes Ronchi
pubblicato il 10 Gennaio 2020
Nell’ultima settimana, tutte le sere Gesù rientra a Betania, nel villaggio delle case amiche. Ma il pellegrino dell’assoluto non può fermarsi: «Andate in città, vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua, seguitelo, e là dove entrerà dite al padrone di casa: dov’è la mia stanza in cui possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta, lì preparate la cena per noi» (Mc 14,13-15).
È l’ultima casa in cui Gesù entra da libero. L’ultimo spazio accogliente è questa abitazione di un amico, probabilmente benestante, una dimora a più piani, ben arredata, con spazio sufficiente per Gesù e il gruppo – non piccolo – di coloro che lo avevano seguito dalla Galilea: i discepoli e «numerose donne che erano salite con lui a Gerusalemme» (Mc 15,41).
Qui celebra l’ultima cena con gli amici, la prima di molte, innumerevoli altre cene. Senza esitazione, i primi cristiani fanno proprie anche le opzioni pratiche di Gesù e scelgono lo spazio accogliente e caldo di una casa per riunirsi a spezzare il pane in sua memoria (cfr. Atti 2,42; 20,7-11) e per ascoltare gli apostoli.
È un fatto rilevante che la liturgia cristiana nasca, per così dire, «in casa», in un’atmosfera familiare, intima e affettiva. Pur continuando a frequentare il tempio e la sinagoga, i discepoli si ritrovano nel contesto ospitale di una casa e della famiglia che la abita: è nella casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, che sono raccolti in preghiera quando li raggiunge, nella notte, Pietro miracolosamente liberato dal carcere (cfr. Atti 12,12): tra le mura di una casa amica, dove la vita è più intima e libera, creativa e generante.
La prima struttura della comunità di cui abbiamo memoria è la «assemblea presso la casa», o «chiesa domestica», che nel mondo romano assumerà il nome di domus ecclesia, letteralmente «casa della comunità». Questa esperienza dei secoli incandescenti si prolungherà fino ad avvolgere con la memoria dei primi tempi le cattedrali e gli edifici di culto, che prenderanno da domus il nome di «duomo», e da ecclesiae il nome di «chiesa», in origine non edificio ma assemblea.
La prima cattedrale non è quella solenne e monumentale delle città, ma è e rimane domestica e familiare. E il primo altare del mondo è la tavola di casa. Per i primi tre secoli, vennero scelti edifici ben mimetizzati nel tessuto urbano e per lo più di modeste dimensioni. Case che dall’esterno sembravano normali abitazioni private, mentre all’interno comprendevano locali adibiti al battesimo, all’eucaristia, alla preparazione di coloro che iniziavano il cammino di fede.
Non si trattò tuttavia solo di una necessità o di un caso. Nell’esperienza cristiana più autentica Dio è di casa. Si è fatto uomo, sceglie di abitare fuori dalle mura del tempio, entra e abita nella casa degli uomini, pranza e cena con loro, condivide con gli uomini gli spazi della quotidianità. Veglia sul loro sonno, sta coi bambini mentre giocano, accompagna i gesti e i mestieri di ogni giorno, il lavoro, lo studio, i rumori e gli odori della cucina.
Solo un Dio che si è fatto uomo può scegliere di abitare fuori dalle mura del tempio, nella stessa casa dell’uomo, nella «profana» dimora dei mortali. E sarà così per sempre, perché è nella natura stessa del cristianesimo.
Alle volte mi sorprende un sogno: che bello se tornassero le domus ecclesiae! Se ritornassero in ogni contrada, in ogni via, in ogni condominio le chiese domestiche e familiari, intime e calde, dove gli amici si incontrano per ascoltare la Parola, intercedere per il mondo, spezzare il pane in memoria di Lui. La prima comunità cristiana si è radicata nella quotidianità espressiva della casa.
Da lì può ancora ripartire. Perché lì, dove la vita celebra la sua liturgia, respira il Signore della vita.
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